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Ricordo perfettamente la prima volta che vidi il mare; era un torrido giorno di agosto di circa vent’anni fa e mi trovavo con la mia famiglia su una barca a vela. 

Mio padre mi prese in braccio e, dopo avermi scrutato in volto per un attimo fugace, mi spinse tra le onde, senza neanche avvisarmi.  L’acqua.  Era la stessa che adesso sentivo entrare nelle orecchie, nelle narici, oltrepassare la fessura tra le mie labbra, prepotente come un torrente in piena – un torrente in procinto di spaccare gli argini.  Ma era solo acqua, lo stesso elemento di cui in parte il mio corpo era composto.

Percepivo ancora il frastuono della mia disfatta; era lì, immobilizzato dentro i miei ricordi,  dipinto con inchiostro indelebile nei miei timpani. 

Il mio corpo terreno e quello celeste erano crollati lì, infrangendosi su quella patina gelida – quella patina che adesso mi rubava il fiato, impedendomi di respirare. 

Non riesco ad immaginare chi si nascondesse dietro a tutto questo, ma posso percepire un chiaro messaggio: qualcuno, lì fuori, sta aspettando.

Quando riaprii gli occhi, avevo il viso e le mani impastate di sabbia.  Ne stringevo ancora un pò dentro i pugni chiusi.  Ero così debole fisicamente che provai una gran fatica nel tentare di sollevarmi.  Ciò che vedevo attorno a me, era un mondo a me sconosciuto, un luogo surreale.  Ombre scure si stagliavano lontane, muovendosi a ritmo del vento, oltre il mare.  Mi inumidii le labbra con la lingua, fino quasi a ferirmi. Ero disidratato. Non rimembravo nulla della mia vecchia vita.  Non avevo idea di come fossi finito in quel luogo selvaggio, in quel paradiso amaro.  Ma l’affanno e le ferite ancora aperte mi erano di conforto: ero vivo e questa certezza, al momento, mi bastava.