Sono trascorsi più di cinquant’anni dal terremoto del Belice. Per chi visita quei luoghi si ritrova davanti un’opera di arte contemporanea tra le più estese del mondo. L’intento dell’artista Alberto Burri – che negli anni ’80 scelse di intervenire nella città vecchia e non in quella nuova in costruzione – era quello di cristallizzare nel tempo Gibellina dopo il sisma del ’68, in modo che il ricordo di quello che è stato non potesse più essere cancellato. 

Le strade che percorrono il gigantesco monumento sono come delle ferite, che non vanno dimenticate e perciò vanno rese immortali. Ideando questa grande opera di Land-Art Burri è riuscito a conservarne per sempre la memoria. Camminando tra quelle vie, ascoltando il rumore del silenzio, ho pensato alle famiglie che vivevano lì, alla disperazione di chi ha perso i propri cari sotto le macerie, a chi in quei luoghi aveva una storia da raccontare. Ho percepito l’assenza di sicurezze, ho sentito il loro dolore e ho abbracciato il loro bisogno di rinascita. La mancanza di certezze ci fa sentire fragili e pericolanti, come i ruderi delle città dopo un violento sisma. Ciò che ho percepito è che – anche se la vita ha ripreso e continua ad andare avanti altrove – l’arte ha il compito di mantenere vivo il ricordo di quel tragico giorno, ma non solo: l’obiettivo infatti è conservare anche tutte le cose belle.

Ho immaginato come sarà stato difficile spostarsi in un nuovo paese, che di quello precedente mantiene solo il nome, ma è più moderno, più grande, privo dei gesti quotidiani di vicinanza, meno caloroso e accogliente dell’antico paese. Ad oggi è infatti praticamente disabitato e non porta con sé i ricordi di una vita trascorsa. Ho sentito il freddo e il disagio che le persone hanno provato sulla loro pelle. Mi sono immedesimata nei loro pensieri, nella voglia di ricominciare, nel desiderio di normalità, fatto di piccoli gesti. Muovendomi per le vie del Cretto ho immaginato la scuola con i bambini intenti nelle loro attività quotidiane, ho pensato alle giovani coppie che programmavano il loro futuro, nel calore delle proprie case. Ho pensato a chi da un momento all’altro ha perso tutto, a chi ha dovuto abbandonare la propria casa senza più potervi fare rientro, a chi, una volta tornato in paese, non ha trovato più niente. L’idea innovativa di Burri mi ha colpito: le vie del Cretto contengono i ricordi di una vita che fino a quel giorno scorreva tranquilla. 

Ho sentito gli abitanti di Gibellina Vecchia raccontare quel giorno con le lacrime agli occhi, pieni di emozione anche a distanza di più di cinquant’anni. E ciò ha provocato in me un grande senso di vicinanza. Raccontano la perdita della quotidianità nel nuovo paese, dei rapporti di vicinato, delle passeggiate domenicali per recarsi in chiesa, troppo lontana per i più anziani.

Dentro Poggioreale Vecchia non si può entrare, i crolli degli ultimi anni l’hanno resa inagibile, ma guardando attraverso quel cancello e scattando una foto del suo interno ne ho precipito la desolazione, l’angoscia e il fermarsi del tempo. Ho visto la natura riprendersi le strade, incolta e selvaggia; ho visto fiori colorati sbucare in mezzo alle sterpaglie. Chiudendo gli occhi ho immaginato il tempo tornare indietro, le strade popolarsi, i bambini correre verso scuola, altri giocare a calcio vicino alla chiesa, ho immaginato i più anziani seduti sulle sedie a chiacchierare, i giovani recarsi in biblioteca a prendere in prestito un libro. Mi sono sentita così fortunata ad avere un tetto sopra la testa, una famiglia unita da cui tornare la sera, un amore. Ho pensato a quanto è bello avere ancora i propri oggetti di valore, con un forte legame affettivo; perché perdere la propria casa significa perdere una parte del proprio passato. Ho percepito la tragedia in tutta la sua amara realtà e mi sono sentita profondamente vicina agli abitanti di quei luoghi. Burri ha abbracciato i ricordi, le case, i sogni e le piccole conquiste e li ha bloccati per sempre nel tempo, creando un’opera che mi ha emozionato. 

Ornella Badagliacca